L’ultima spiaggia prima di perdere ogni produzione

L'ultima spiaggia prima di perdere ogni produzione

La vicenda dell’Ilva è la cartina di tornasole della palese incapacità della politica di affrontare e risolvere le questioni di uno sviluppo industriale sostenibile e più in generale i problemi del lavoro in Italia. Lo avevamo detto con chiarezza già alcuni mesi fa: Arcelor Mittal andrà via senza le garanzie a suo tempo pattuite sulla tutela penale per gli effetti ambientali del piano industriale. “Pacta servanda sunt”, dicevano i latini. Ma sia il Governo Conte uno, sia il Governo Conte due non hanno saputo garantire lo “scudo penale”, propiziando quello che può diventare un vero e proprio disastro economico, sociale ed anche ambientale. 

L’Ilva è uno degli stablimenti siderurgici più produttivi d’Europa e ha sfornato uno degli acciai d’eccellenza del nostro paese. Eppure la sua crisi si trascina da 20 anni, tra svendite, commissariamenti, amministrazioni straordinarie, disastri sul piano ecologico. Mai gravi problemi ambientali dell’area di Taranto non possono risolversi con la chiusura degli impianti. L’incompatibilità ambientale si può superare se si investe nelle nuove tecnologie che possono abbattere le emissioni e l’inquinamento. Questo prevedeva l’accordo con Arcelor Mittal, con un investimento di 4 miliardi di euro, di cui la metà per il risanamento ambientale. 

Non è vero che non si possa produrre acciaio in maniera pulita, come tra l’altro avviene in altri paesi europei. Questa è oggi la sfida se non si vuole buttare via un settore che vale svariati miliardi di euro. Ecco perché la politica non può fare ora lacrime di coccodrillo e scaricare le colpe solo sull’azienda. Il Governo deve assumersi le sue responsabilità. Scelgano la strada più opportuna e rapida, il decreto o l’emendamento. L’importante è fare una norma, che potrebbe essere estesa a tutte le aziende, che consenta di andare avanti nei piani di risanamento ambientale senza fermare la produzione. 

Chi parla di altre soluzioni oggi fa solo spot elettorali di pessimo gusto. La scelta è tra salvare lo stabilimento ed il baratro. La politica ha innescato questa miccia esplosiva, la politica ha il dovere di disinnescarla. Sarebbe un danno economico enorme per il Mezzogiorno, ma anche per gli stabilimenti di Genova in Liguria, di Novi Ligure e Racconigi in Piemonte, di Marghera in Veneto e per tutta l’economia del paese, se l’Ilva chiudesse i battenti, perché senza l’impianto pugliese si ferma tutta la produzione in Italia. Nessuno stabilimento potrebbe andare avanti senza la materia prima prodotta a Taranto. Parliamo di 20mila posti di lavoro a rischio, compresi quelli dell’indotto.

Solo ripristinando la tutela giuridica si può davvero capire se l’azienda cerca un pretesto per rompere i patti. Non esiste una strada alternativa. Sono anni che non si fa più politica industriale nel nostro paese. Abbiamo perso pezzi importanti di produzione nelle telecomunicazioni, nella chimica, nella meccanica, nei trasporti, nell’agroalimentare, in tutti i settori produttivi. Ci sono 160 crisi aziendali aperte al Mise, a partire da Alitalia che giace senza più cassa in attesa di capire quale è la soluzione che il Governo auspica. 

Il risultato è la crescita zero del paese, assenza di investimenti in innovazione, nuove tecnologie, ricerca, formazione e quei pochi investitori stranieri che vengono in Italia scappano via dopo qualche anno. Non siamo riusciti a trovare un nostro modello di sviluppo di qualità, complice una politica che ha solo puntato sulla gestione delle crisi aziendali attraverso la cassa integrazione. Ora siamo all’ultima spiaggia. Speriamo che il Governo e le forze politiche battano dunque un colpo, mettendo da parte divisioni e ideologismi, ma pensando solo a fare gli interessi generali del paese. Noi siamo pronti a tutelare i lavoratori e le lavoratrici e la capacità produttiva del paese con tutti gli strumenti contrattuali e le forme di mobilitazione che saranno necessarie. 


Annamaria Furlan, Segretaria Generale Cisl
Intervento pubblicato il 6 novembre 2019 sul Secolo XIX

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