L’intervento di AnnaMaria Furlan sul Sole24Ore

I dati sulla crescita del Pil nel IV trimestre 2015, inferiori rispetto alle stime dello stesso istituto di statistica e dei principali analisti indicano con chiarezza che l’Italia sta uscendo con fatica dalla recessione. Ha ragione Alberto Quadrio Curzio che ha ricordato come l’Europa sia di nuovo in difficoltà a causa delle sue «ambiguità strutturali», sollecitando un «organico progetto europeo» per dare ossigeno alle nostre imprese ed all’occupazione, …

… ripartendo dagli investimenti pubblici e privati che devono essere svincolati da parametri troppo rigidi e da una burocrazia asfissiante. Stiamo vivendo l’impasse strategico di un’Europa ossessionata dalla stabilità monetaria, senza una gestione solidale delle risorse per il bene comune. Speriamo che il vertice di giovedì prossimo dei 28 capi di Governo dell’Unione non si risolva nella solita dimostrazione di impotenza collettiva o di «sopravvivenza statica».

Che cosa fare, dunque? La strada potrebbe essere quella di sospendere il Fiscal compact sino al raggiungimento di una crescita del Pil del 3% ed impostare sugli Eurobond la politica di bilancio europeo ed il finanziamento dell’economia reale che rischia il rallentamento strutturale, come bene ha ricordato Quadrio Curzio nel suo intervento. Si otterrebbe così una gestione comunitaria del debito, almeno della quota eccedente il 60 per cento del rapporto debito/Pil, liberando risorse per la crescita e per il sostegno del welfare. L’avvio della gestione comune del debito sarebbe il prologo per un bilancio comune europeo, una fiscalità europea e, soprattutto, una politica di investimenti che aprirebbe finalmente una fase “costituente” verso gli Stati Uniti d’Europa. Questo percorso virtuoso non esaurisce, certo, i compiti gravosi del nostro Governo che dovrebbe concentrarsi di più sulle questioni della crescita dei consumi interni nel nostro Paese, ancora troppo bassi ed insufficienti. L’aumento del Pil si implementa con uno sviluppo omogeneo e con politiche selettive nuove, favorendo gli investimenti di qualità, soprattutto nel Mezzogiorno, in modo da ridurre il divario esistente tra le aree del paese, sul piano infrastrutturale, dei costi energetici, del risanamento ambientale e del territorio.

La pubblica amministrazione può essere davvero il “motore” di questo sviluppo. Anche noi siamo indignati contro i casi di assenteismo, per fortuna una piccola minoranza dei lavoratori pubblici che fanno onestamente il proprio lavoro. Ma non basta punire i delinquenti o licenziare i fannulloni. La Cisl è pronta a discutere con il Governo una vera riorganizzazione dell’apparato statale e di tutti gli enti pubblici, affrontando il legame tra trasparenza ed efficacia dei servizi, innovazione, partecipazione dei lavoratori alle scelte, ruolo di controllo dei cittadini, responsabilità dei dirigenti. Ma è la contrattazione lo strumento migliore per affrontare questi temi spinosi. Per questo, una volta che saranno riorganizzati nei prossimi giorni i comparti, occorre aprire il confronto sui contratti pubblici scaduti da più di sette anni. Le riforme hanno successo e diventano efficaci se si ricerca un clima di maggiore coesione sociale, di partecipazione dei corpi intermedi e della società civile. È giusto che il Governo eserciti le proprie prerogative con una funzione di indirizzo e di stimolo. Ma anche le parti sociali devono fare oggi la propria parte con grande senso di responsabilità.

Ecco perché Cisl-Cgil-Uil hanno presentato una piattaforma unitaria ponendo la produttività, la partecipazione dei lavoratori e la valorizzazione del livello aziendale e territoriale al centro della nuova stagione di relazioni industriali. Dobbiamo discuterne nelle prossime settimane con serietà, e senza pregiudiziali reciproche, con tutte le associazioni imprenditoriali, per non lasciare alcun alibi al Governo ed al Parlamento di intervenire per legge sui minimi contrattuali, visto che i contratti collettivi già sottoscritti da imprese e sindacati coprono l’85% dei lavoratori. Non sarebbe equo e non è il momento di diminuire i salari, che peserebbe sulla domanda sapendo che il 75% della produzione italiana è rivolta ai mercato interno. Solo attraverso la contrattazione si crea più qualità sia di chi lavora, sia di ciò che si produce. Noi pensiamo che se l’Italia vuole essere più forte e competitiva in Europa deve favorire una stagione di condivisione e di responsabilità collettiva nel Paese, attraverso un grande “patto sociale”, altrimenti il rischio è che quel faticoso inizio di ripresa che si intravede dai dati del Pil venga soffocato dalle tempeste dei mercati finanziari e dalle divergenze tra i paesi europei.


Pubblicato sul quotidiano Sole24Ore del 16 febbraio 2016 con il titolo “L’Europa può superare la sua empasse” – pagina 22 (Commenti e inchieste)

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